Dopo oltre un anno e mezzo dall’ultimo post sull’essere genitori consapevoli, torno a scrivere su questo blog.
Volevo adesso parlare di un libro che ho letto qualche settimana fa e che dopo tanto tempo mi ha riportato al tema della meditazione, sebbene da un punto nuovo e insolito. Il libro, che si intitola “Resisto dunque sono” è scritto infatti da uno psicologo dello Sport, Pietro Trabucchi, che si occupa di prestazioni sportive di “resistenza” (robe toste come l’ultramaratona, la “quattro deserti”, o la scalata del kilimangiaro in poco più di 8 ore..)
Il tema di fondo del libro è quello della resilienza, che sarebbe un pò l’equivalente psicologico della proprietà dei metalli di resistere alle sollecitazioni. Così come per un metallo la resilienza rappresenta il contrario della fragilità, in campo psicologico la persona resiliente è l’opposto di una facilmente vulnerabile.
L’autore propone una interpretazione molto precisa e affascinante della resilienza come :
la capacità di persistere nel perseguire obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà e gli altri eventi negativi che si incontreranno sul cammino.
Ora mi direte, cosa c’entra tutto questo con la meditazione?
In realtà c’entra eccome, e non a caso un intero capitolo del libro (il 7° di cui riporto alcuni estratti in seguito) è dedicato proprio alla pratica di meditazione.
Chi ha praticato la meditazione per un certo periodo conosce per esperienza il tipo di effetti che la pratica prolungata e intensiva (sopratutto quella che si può avere in un ritiro di anche solo 2/4 settimane di pratica di consapevolezza) apporta sul sistema nervoso e come cambi l’atteggiamento di fondo verso la sofferenza, il dolore psicofisico e lo stress.
Nessuna disciplina al mondo, che io sappia, insiste così tanto sull’importanza dello “stare con” il dolore e sull’accettazione dell’esperienza del momento, per quanto dolorosa essa sia, quanto la meditazione buddhista.
Ora, alla luce del libro di Trabucchi, mi è diventato finalmente chiaro che uno dei benefici e degli scopi primari della pratica di meditazione era quindi alla fin fine proprio questo: sviluppare e accrescere la propria resilienza psicologica.
E, paradossalmente, proprio questo suo “potere” di renderci “resistenti” dinnanzi alle difficoltà e ai disagi della vita, è alla base di quella che per me è la trappola più insidiosa e limitante della meditazione, per sfuggire alla quale mi sono allontanato dalla pratica formale nell’ultimo periodo, a favore di altro. Di questi “inganni” della mente, sui quali conto di tornare in un prossimo post, parla di sfuggita lo stesso Trabucchi nella parte finale del capitolo dedicato alla meditazione.
Di seguito riporto alcuni estratti di quel capitolo, da cui emerge una conoscenza tutt’altro che superficiale della materia e una serie di spunti di riflessione per nulla banali e interessanti, che spero possano essere di ispirazione per molti meditatori.
È facilmente prevedibile che il termine «meditazione» renda diffidenti parecchie persone. La nostra cultura è piena di pregiudizi e di idee non corrette su cosa sia la meditazione e sulla sua reale utilità.
Nel contesto di questo libro, parlare di «meditazione» non significa aspirare a importare uno stile di vita New Age e impiantarlo come un corpo estraneo nella nostra esistenza; né equivale a vagheggiare civiltà e culture lontane nel tempo e nello spazio.
Il termine «meditazione» è inflazionato e carico di significati e immagini. In questo contesto però, ha un significato preciso: qui il termine indica una modalità di funzionamento mentale basata sul controllo dell’attenzione che ha forti ripercussioni sia di tipo cognitivo sia di tipo fisiologico.
Jon Kabat-Zinn, forse il più importante divulgatore in Occidente delle tecniche di meditazione, fondatore e direttore della Clinica per la riduzione dello stress presso l’Università del Massachusetts, definisce «meditazione» «la pratica di mantenere desta l’attenzione momento per momento». E Daniel Goleman, un altro eminente scienziato con alle spalle una lunga pratica personale dichiara: «la meditazione è, nell’essenza, lo sforzo di riaddestrare l’attenzione»
• Non è una pratica mistica, sebbene storicamente si sia sviluppata in contesti religiosi, particolarmente in quello buddista. Non dobbiamo dimenticare però che la dottrina buddista non è soltanto un insieme di riti e cerimonie apparentemente esotiche, ma anche uno studio estremamente sofisticato e millenario del funzionamento mentale.
• Non è una forma di passività o di vita contemplativa ma, al contrario, qualcosa che si può applicare al cuore dell’azione. Anche se, spesso malauguratamente, il fatto di meditare viene associato a una «fuga dal mondo».
• Non è un altro termine per «rilassamento». La meditazione a volte può procurare sensazioni di benessere e di distensione. Ma questo non è il suo scopo primario. Poiché comporta il fatto di accettare di essere consapevoli di tutti gli stati d’animo che viviamo, può anche voler dire vivere sensazioni di disagio e di ansia. Essa non si focalizza sui contenuti, ma sulla consapevolezza dei contenuti.
• Non è semplicemente una tecnica per potenziare l’attenzione, sebbene la sua pratica sia focalizzata sull’uso dell’attenzione e abbia come effetto un notevole sviluppo delle capacità attentive.
• Non è una tecnica di «ristrutturazione cognitiva» (si veda il capitolo 5 del libro), sebbene la sua pratica consenta spesso di ripensare il significato delle situazioni.
• Non è una tecnica di problem-solving, anche se la sua pratica consente spesso di trovare soluzioni adeguate a problemi reali.
Perché la meditazione rappresenta un mezzo per aumentare la resilienza personale? Cosa rimane dunque di essa una volta che è stata depurata dagli aspetti mistici e religiosi?
Rimane l’insegnamento del non reagire ai contenuti della mente come fossero realtà. Noi tendiamo a confondere i nostri pensieri sulla realtà con la realtà stessa. […] La grande maggioranza dei nostri pensieri durante la nostra vita consiste in sogni a occhi aperti, giudizi, opinioni, ricordi, desideri, fantasticherie. Come abbiamo già sottolineato infinite volte nei capitoli precedenti, noi non abbiamo una percezione diretta e oggettiva del reale. Crediamo che i pensieri nascano in reazione agli eventi reali, ma spesso sono legati a questi ultimi solo in modo indiretto e distorto.
Occorre comprendere che i pensieri sono solo pensieri, mentre la nostra reazione si basa invece sul fatto che essi siano la Realtà con la R maiuscola. Meditando ci si accorge che i pensieri vanno e vengono, ma spesso noi reagiamo a essi emotivamente e attuando comportamenti e azioni.
Neutralizzando la reazione, «distanziandoci» o «decentrandoci» per usare il linguaggio della Mindfulness (la tecnica derivata da Kabat-Zinn, e di cui parleremo più avanti), anche il pensiero finisce per dissolversi. Questo succede soprattutto per i pensieri e gli stati d’animo negativi: in genere siamo poco capaci di affrontarli.
Troviamo faticoso prestare attenzione a ciò che non è piacevole. Cerchiamo di proteggerci da troppa realtà. Come dice Charlotte Joko Beck, «momento per momento siamo chiamati a decidere tra il mondo meraviglioso dentro la nostra testa e la realtà». Possiamo decidere di passare la nostra vita a sognare, oppure decidere di stare con ciò che è qui-e-ora, qualunque cosa sia.
Sul piano cognitivo i pensieri negativi, se non vengono riconosciuti consapevolmente, innescano la produzione di routine automatiche di altri giudizi, emozioni, reazioni fisiche e stati d’animo negativi in una spirale distruttiva che si autoalimenta. Queste routine vengono definite in gergo «proliferazioni mentali»: sono attività di pensiero che trasformano le situazioni in problemi. L’inconsapevolezza di questi processi rinforza le reti neurali che li sottendono
È questa attitudine ad accettare sentimenti spiacevoli, a rimanere distaccati dai propri pensieri, vedendoli non come «cose» oggettive a cui reagire, ma come semplici pensieri, che possiamo definire capacità di «decentrarsi»; chi sa decentrarsi vive i pensieri per quello che sono, non li considera copie fedeli della realtà, non si identifica con essi.
L’altro grande vantaggio nell’utilizzo della meditazione è rappresentato dalla sua efficacia nel contrastare gli effetti fisiologici dello stress: la pratica della meditazione regola la produzione di cortisolo e di noradrenalina, tra i più importanti ormoni legati allo stress cronico; diminuisce il tono simpatico dell’attività cardiaca; aumenta la serotonina, neurotrasmettitore legato all’umore; diminuisce la pressione sanguigna; migliora la regolazione del glucosio in pazienti diabetici, peggiorata dallo stress cronico; migliora infine le difese immunitarie. Da un punto di vista neurofisiologico la meditazione produce una modificazione del rapporto tra attivazione dell’emisfero sinistro e destro (con aumento dell’attivazione sinistra), fatto che indica una migliore modulazione dei circuiti cerebrali responsabili della risposta emozionale. Dopo un corso di meditazione di quattro settimane si osservano modificazioni cerebrali che perdurano oltre quattro mesi.
La «tecnica meditativa» è sconcertante nella sua semplicità. In realtà di tecniche meditative ne esistono tantissime, ma quello che conta non è la forma esterna, è l’attenzione ai processi mentali; anzi la stessa parola «tecnica» può suonare inappropriata se applicata al processo meditativo, poiché la tecnica non è il fine, ma il mezzo.
Jon Kabat-Zinn dice che la meditazione è «la cosa più dura al mondo». Ha ragione. La semplicità dei requisiti della pratica può ingannare. Ancora una volta bisogna ribadire che stare con quello che c’è, osservando, senza reagire, è molto duro, è molto difficile
La meditazione non è prestativa. Non c’è un risultato da raggiungere. Tutto ciò che avviene, distrazione, noia, fastidio è la meditazione. Occorre notarlo e riportare la mente sul respiro.
L’obiettivo è che gradualmente si diventi capaci di estendere l’atteggiamento mentale della meditazione in tutti i momenti della giornata, al di fuori degli spazi inizialmente deputati. L’importante è non vedere lo spazio che dedichiamo alla meditazione come uno spazio «altro» rispetto al resto della nostra vita. L’obiettivo, benché ideale, è che un giorno ambedue questi spazi coincidano tra loro. Anzi, la pratica meditativa ha un senso ancora maggiore se non rimane isolata dal resto della vita, ma viene portata nel cuore dell’azione: con una lunga pratica meditativa alle spalle, l’atleta può controllare meglio le emozioni durante la prestazione. Un esperto meditatore come Claudio Bastrentaz utilizza questo suo background durante le ascensioni alpinistiche; atleti di estrema resistenza come Checco Galanzino utilizzano la pratica meditativa per regolare l’allarme emozionale di fronte alla fatica intensa.
Attenzione infine ad altre due creazioni della mente: la prima è l’idealizzazione della meditazione come soluzione di tutti i problemi. La meditazione può renderci più resilienti, ma non ci renderà invulnerabili alle difficoltà della vita.
Il secondo pericolo riguarda l’idealizzazione del meditatore.
Anche la pratica meditativa può essere utilizzata con fini compensativi: per alimentare un’immagine di sé basata su invulnerabilità, controllo e invincibilità. In realtà si tratta appunto di un uso compensativo, volto a nascondere un senso di inadeguatezza e destinato a bloccare i progressi del soggetto.
(tratto da Resisto dunque sono. Chi sono i campioni della resistenza psicologica e come fanno a convivere felicemente con lo stress (I libri del benessere)
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Attendo il tuo prox articolo sul perchè hai abbandonato la meditazione...intanto ti ringrazio per avermi fatto conoscere Jon Kabat Zinn...ho preso "Ritrovare la serenità" ed altri 2 suoi libri e mi stanno aiutando parecchio, assieme ad un percorso psicoterapico, ad uscire da una fase difficile della vita contornata da depressione e ansia.