Ritiro di meditazione vipassana di 10 giorni: la mia esperienza

Stai valutando se fare o meno un ritiro di meditazione silenziosa di 10 giorni? Cosa puoi aspettarti da questo genere di esperienza? In questo articolo tiro le somme delle mie esperienze in vari ritiri di meditazione vipassana condotti secondo la tradizione di Mahasi Sayadaw.

Sala di meditazione del Centro Pian dei Ciliegi
Sala di meditazione del Centro Pian dei Ciliegi

Sono trascorsi più di 10 anni dai miei primi ritiri di meditazione intensiva, condotti a partire dal 2006.
Da allora non ho mai condiviso la mia esperienza sebbene (o forse proprio per il fatto che) sia stata probabilmente una delle più importanti, intense e formative della mia vita.

Nonostante sia passato parecchio tempo, ho ancora un ricordo vivido dei ritiri di meditazione, e non potrebbe essere altrimenti per le ragioni che vedremo. Prima che la memoria decada ho deciso di fare il punto e condividere non tanto i dettagli logistici/pratici ma i “key learning” e gli “insights” più importanti che mi sono portato a casa da queste esperienze

Il programma giornaliero di un ritiro di meditazione Vipassana

In un ritiro di meditazione condotto secondo la tradizione theravada, l’agenda della giornata è strutturata al minuto. Nulla è lasciato al caso, e ogni elemento dell’ambiente e ogni momento di veglia sono progettati per favorire l’approfondimento della pratica e aumentare la consapevolezza a livelli impossibili nella vita ordinaria.

Si ripropone sostanzialmente uno stile di vita monacale, scandito da un programma quotidiano di questo tipo:

4:30: Sveglia (campana)
5:00 – 6:00: Meditazione camminata
6:00 – 7:00: Meditazione seduta
7:00 – 8:00: Colazione
8:00 – 9:00: Meditazione seduta
9:00 – 10:00: Meditazione camminata
10:00 – 11:00: Meditazione seduta
11:00 – 12:00: Meditazione camminata
12:00 – 13:00: Pranzo
13:00 – 14:00: Riposo, lavori o meditazione camminata
14:00 – 15:00: Meditazione camminata
15:00 – 16:00: Meditazione seduta
16:00 – 17:00: Meditazione camminata
17:00 – 18:00: Meditazione seduta
18:00 – 19:00: Pausa the/frutto (al posto della cena) e Meditazione camminata
19:00 – 20:00: Discorso serale di Dharma
20:00 – 20:45: Meditazione camminata
20:45 – 21:30: Meditazione Metta
21:30 – 5:00: Riposo

Durante un ritiro buddhista ci sono dei precetti da seguire, che sono da prendere più che altro come caldi suggerimenti:

  • niente cena,
  • niente parole (se non strettamente necessarie),
  • niente rumori,
  • niente sesso,
  • niente scrittura (se non appunti per il dhamma talk),
  • niente lettura (se non suggerita dall’insegnante),
  • niente esercizio fisico.

Può sembrare una privazione di libertà inaudita e indebita per la nostra vita ordinaria, in realtà il risultato è l’esatto contrario. La rinuncia temporanea a queste attività, che spesso conduciamo in modo compulsivo, libera una enorme quantità di energia che può essere indirizzata verso la pratica.

Quale pratica? La pratica della Vipassana (in pali Visione Profonda) non è altro che l’osservazione diretta, momento per momento, dei processi del corpo e della mente tramite un’attenzione calma e concentrata.

In un ritiro abbiamo l’opportunità, unica, di intensificare la capacità di prestare attenzione sia nello spazio – profondità e ampiezza di attenzione dei processi interni mentali, fisici ed esterni – che nel tempo – continuità dell’attenzione ininterrotta per perdiodi di tempo sempre maggiori.

Il nostro lavoro quindi, da mattina a sera, è soltanto quello di strofinare continuamente l’attenzione sugli oggetti di meditazione che ti verranno dati di volta in volta (respiro, sensazioni fisiche del camminare, mangiare, lavare i piatti, suonare la campana) trovando il giusto livello di attrito, continuità e delicatezza.

Dopo un certo numero di “strofinamenti”, si accende inevitabilmente la scintilla della consapevolezza, così come un fiammifero produce la fiamma se fregato su una superfice abbastanza ruvida. Maggiore luce, luminosità e illuminazione, vengono di conseguenza.

Sensazioni fisiche durante il ritiro

I primi giorni sono di norma molto impegnativi, anche per i meditatori più navigati.
Restare seduti a gambe incrociate, per sessioni di 1h alla volta, ripetute per 5, 6 o più volte nell’arco del giorno, produce i primi tempi sensazioni di dolore di una intensità lancinante e insopportabile.

Ricordo ancora chiaramente momenti in cui le gambe bruciavano così forte che se avessi avuto un falò acceso sotto lo zafu, o delle lame conficcate nelle cosce, pensavo, non sarebbe stato poi molto diverso. Una sofferenza meno appariscente, meno splatter, ma egualmente truce.

Eppure, mantenendo l’attenzione a contatto con queste sensazioni, il dolore di norma spariva nel giro di qualche giorno. O meglio, le sensazioni spiacevoli di bruciore, pressione o altro continuavano ad esserci, ma cambiava radicalmente il mio atteggiamento. Anzichè reagire con avversione e opporre resistenza al dolore, iniziavo ad osservare le sensazioni con un sempre maggior distacco, come se stessi osservando al microscopio un qualsiasi elemento della realtà, senza particolare attaccamento o identificazione.

Diminuiva insomma lo spazio e il tempo dedicato all’avversione emotiva verso la realtà, al giudizio, alla catalogazione delle sensazioni come “intollerabili” o “ingiuste”, e aumentava quello dell’esplorazione, curiosa e sempre più accettante e disinteressata, della natura ultima della realtà.

Più guardavo le sensazioni con attenzione, a livello semre più sottile e profondo, più mi rendevo conto che quelle erano sfuggenti, come anguille. Un momomento le localizzavi in un punto, il momento dopo non erano già più lì, non riuscivi più a trovarle anche se la mente era ancora convinta di “soffrire come un cane”.

Se guardavo bene con il giusto livello di ingrandimento, notavo solo un continuo flusso o cambiamenti di stato in rapida successione, che la mente etichettava come “dolore” o “fastidio porco” ma a conti fatti la situazione era molto più fluida e mutevole di quello che la mente ordinaria voleva farmi credere.

Raggiungere la capacità di provare dolore senza soffrire, è stata una delle rivelazioni ( “Insights” come le chiamano in Occidente) più importanti dei miei primi ritiri, che mi ha dato la fiducia necessaria a proseguire in quel cammino senza timore. Qualsiasi cosa fosse accaduta, a livello fisico, avevo imparato a osservarla con la giusta dose di cusiorità e attenzione concentrata. Tutto quello che mi serviva era sviluppare il giusto livello di attenzione concentrata e di stabilità della mente.

Stati della mente e consapevolezza aumentata durante un ritiro di meditazione

Oltre alle crescenti sensazioni di dolore fisico, i primi giorni di ritiro sono quelli nei quali ci rendiamo conto in modo ineluttabile del frastuono dirompente e incontrollato che abbiamo nella testa.

Il silenzio e l’assenza di distrazioni esterne non ci lasciano più vie di fuga e siamo quindi forzati a prendere atto del “casino” che abbiamo dentro, iniziamo a vedere chiaramente quanto compulsiva, poco utile e scoordinata sia l’attività mentale ordinaria che chiamiamo “pensare”.

Col passare del tempo, e attenendosi al progamma di pratica, anche la mente inizia a placarsi, i pensieri incontrollati inziano a diminuire e diradarsi. Iniziamo a scoprire di poter pensare “a comando”, solo se e quando lo vogliamo.

Il diradarsi della foschia mentale e del brusio continuo dà spazio ad una consapevolezza aumentata che, tra gli altri benefici ha quello di permetterci di apprezzare anche le cose più semplici, riscoprendo bellezza e gioia laddove prima non esistevano – se non forse quando eravamo ancora molto piccoli e sensibili.

Quando parlo di consapevolezza aumentata mi riferisco a qualcosa di paragonabile all’esperienza che si può avere passando da una risoluzione video che si poteva avere nei videogiochi negli anni ’80 (160×200 punti a 12 colori) a quella di un videogame di ultima generazione con video a 4k.

Un gesto “banale” della durata di qualche secondo, come può essere il prendere un bicchiere dal tavolo e bere dell’acqua, diventa in ritiro un’esperienza incredibilmente ricca e interessante composta da un numero impressionante di eventi, dettagli e sensazioni differenti.

Un semplice battito di ciglia, può diventare un evento di proporzioni magnifiche. Puoi vedere nascere l’impulso e intenzione di chiudere gli occhi, cui segue il movimento delle palpebre fino al punto di contatto, quindi il distacco e riapertura. Il tutto avviene in una frazione di secondo, eppure nella consapevolezza aumentata, si entra come in una grande moviola, e ogni fase può essere osservata ad un livello di dettaglio impensabile nella dimensione ordinaria di vita.

Sotto questa luce, lente o tele-obiettivo di osservazione potenziata, l’intera esistenza assume una consistenza e realtà diversa. In questo stato mentale diventa più facile intuire la verità dell’affermazione del Buddha quando diceva:

“nel tempo in cui sbatto le palpebre, il mio corpo appare e scompare milioni di volte.”

Sembra la frase di un folle, eppure è solo una questione di diversa capacità di percezione. Qualche premio Nobel per la fisica delle particelle mi pare peraltro abbia già dimostrato da almeno 50 anni la verità della scoperta fatta dal Buddha oltre 2000 anni prima, quantificando il numero esatto di milioni di volte in cui la materia scompare e riappare nel giro di un secondo.

Se un ventilatore a pale iniziasse a girare ad altissima velocità, non vedresti tre pale con dello spazio intorno, vedresti un piatto bianco immobile sul soffitto. Soltanto diminuendo la velocità di rotazione, o potenziando la capacità visiva, vedresti un oggetto in movimento laddove prima c’era solo una figura statica. Un Buddha, appunto, ha scelto di potenziare la capacità di visione,e vede pale in movimento continuo dove altri vedono solo un disco.

Tutta questa percezione amplificata mi faceva sentire un pò un personaggio della Marvel, qualcuno di super-umano, ma solo per qualche giorno…

Poi è entrata in gioco la parte inconscia della mente, sottopondemi ad una prova decisamente più dura delle precedenti che avevo fino ad allora combattuto esclusivamente sul cuscino.

Crisi nera e rinascita dalle proprie ceneri

C’è un momento particolarmente vivido nella mia memoria del secondo ritiro di meditazione di 10 giorni, a Pian dei Ciliegi, che ha segnato un importante punto di svolta nella mia esperienza non soltanto di quel ritiro, io credo anche della mia vita in genere. Gli anglosassoni lo chiamerebbero un “defining moment” ed avvenne intorno al 4 o 5 giorno di uno dei miei primi ritiri di vipassana.

Eravamo arrivati all’ultima ora di meditazione seduta della giornata e, complice forse lo stress nervoso collegato al dolore fisico e lo stato di ultra-sensibilità generale che avevo raggiunto, iniziai a sentire un fastidiosissimo ronzio o rombo.

Il suono era così intenso che pensavo inizialmente provenisse dall’esterno, ma non potevo chiedere conferma a nessuno per via del precetto di non parlare. Arrivato in camera per dormire mi resi conto mio malgrado che quel suono era tutto mio, non veniva da fuori.

Il ronzio proveniva dall’interno del mio canale uditivo, o da qualche parte del mio cervello, senza orma di dubbio, e volevo liberarmene perchè mi suscitava una certa angoscia. E più provavo angoscia e più il suono aumentava, e più il suono aumentava e più io provavo angoscia e paura in un circolo vizioso che temevo mi avrebbe portato alla pazzia.

Era il suono stesso dell’ansia, incarnato in forma di ronzio. Tutte le mie paure e angosce più profonde, che avevano caratterizzato i periodi più bui della mia esistenza dai tempi dell’adolescenza in poi, si erano come condensate in quel suono ancestrale.

Quell’ incubo sonoro mi tenne sveglio tutta la notte e, ad aggravare la situazione, quando mi alzai nel cuore della notte per tentare di uscire fuori a prendere una boccata di aria, vidi degli spettri aggirarsi per i corridoi bui del centro di meditazione.

Ovviamente, erano le sagome di altri praticanti che, coperti da uno scialle, stavano silenziosamente camminando per i locali, ma nello stato alterato in cui ero, vedevo solo fantasmi, manco fossi nell’hotel di Shining, e trasalii dallo spavento al punto da emettere un grido – rompendo così il voto del silenzio che, in quel frangente, era l’ultima delle mie preoccupazioni.

Il giorno dopo, abbastanza scosso dalla notte insonne, venni richiamato dal manager della struttura, Gianni, che era stato informato delle mie scorribande notturne. Gianni, che in quel frangente si rilevò essere più un Maestro di vita a tutto tondo che un semplice gestore, mi fece un discorso molto breve ma incisivo.

Non ricordo più le parole esatte ma il senso era: “non sei costretto a stare qui, puoi andartene quando vuoi. Qui succedono cose strane alla mente, altre persone hanno provato esperienza simili alla tua durante i primi ritiri. Quello che devi fare è imparare ad osservarle, come faresti con una foglia mossa dal vento o qualsiasi altro evento naturale. Sei disposto a fare questo? Pensi potercela fare?” o qualcosa del genere.

La chiacchierata mi fu di conforto e decisi di restare e continuare il ritiro, anche se l’idea di passare il resto delle mie giornate e nottate in compagnia di un ronzio ansiogeno incontrollabile mi terrorizzava abbastanza.

A quel punto entrò in scena il vero eroe di quell’avventura, l’insegnante che guidava il ritiro e di cui ho ancora oggi a distanza di 10 anni, un ricordo vivissimo e colmo di affetto e gratitudine: Visu Teoh.

Quel giorno, come potrai immaginare, ero impaziente di sfruttare ogni secondo del mio colloquio quotidiano con l’insegnante, per parlare finalmente della mia esperienza notturna. Mi fiondai quindi nella stanza di Visu per raccontargli l’accaduto. Ricordo che quando entrai, lui se ne stava seduto a terra a pronunciare parole in italiano, in uno stato di grazia come quello che potrebbe avere un bambino che gioca a sentire che effetto fa la propria voce che esce a diverse tonalità dalla bocca.

Appena iniziai a parlargli, la sua totale attenzione fu però istantaneamente rivolta a me, così come un flusso costante e ininterrotto di gentilezza amorevole e compassione, che solo lui era in grado di generare con un’intensità quasi “palpabile”. Da allora non ricordo di aver più sperimentato un simile livello di “irradiazione positiva” da parte di un essere umano. Ad ogni modo torniamo all’ansia…

Dopo aver ascoltato la mia storia con grande empatia, Visu mi diede subito, senza esitazione, la chiave  che mi avrebbe permesso di superare quel momento difficile del mio percorso. Il tassello o ingrediente che mancava alla mia pratica e che l’avrebbe portata al livello di maturazione successivo aveva un nome chiaro, codificato nella tradizione Budhista come uno dei 4 stati sublimi: l’equanimità (“upekka” in pali)

In sostanza il consiglio che mi venne dato fu di usare l’esperienza del ronzio come un banco di prova per coltivare e rafforzare la mia capacità di restare imperturbabile di fronte a qualcosa di inevitabile, per quanto sgradevole o terrificante essa fosse.

Trascorsi quindi le giornate e le notti successive con un atteggiamento totalmente diverso. Il problema era stato inquadarato in un modo che aveva senso anche per la parte più razionale e competitiva di me. Da quel momento avrei dovuto semplicemente allenare il muscolo dell’equanimità, così come avevo allenato quello dell’attenzione concentrata.

Passai quindi le ore successive del giorno e della notte a vedere quanto riuscivo a restare equanime di fronte alle mie emozioni: quanto potevo restare con la realtà del momento presente, quale che fosse, senza aggiungere altro? Se c’era un ronzio, quanto ero in grado di accettarlo semplicemente per quel che era? Se c’era angoscia, ansia e paura, quanto ero capace di accogliere queste emozioni, senza aggiungere altra angoscia, altra ansia e altra paura?

Questo esercizio mi permise di spezzare facilmente la catena di loop che teneva in vita la spirale di angoscia e da quel momento in poi potevo osservare il ronzio e qualsiasi altra emozione intensa di angoscia nel suo manifestarsi, intensificarsi e infine dissolversi.

Apertura del cuore e gentilezza amorevole

Una delle scoperte più interessanti, che non avrei potuto fare se non in un ritiro di meditazione vipassana di diversi giorni, è stata quella della meditazione di gentilezza amorevole o Metta (in lingua pali).

La meditazione di Metta, tecnicamente, consiste nel coltivare l’amorevolezza attraverso la generazione continua di pensieri salutari e di buoni auguri verso se stessi, i propri cari, gli amici e tutti gli esseri.

Il suo effetto è di calmare, alleggerire e guarire la mente e il cuore promuovendo allo stesso tempo relazioni amichevoli e armoniose con gli altri. La concentrazione acquisita nella meditazione Metta può anche supportare la pratica della meditazione Vipassana, di cui è un’integrazione e complemento formidabile.

Nella pratica di metta scoprii la possibilità, insospettabile prima di allora, di allenare il muscolo del cuore ( atrofizzato nel mio caso da anni di scarso utilizzo) fino al punto di poter generare, a comando, flussi di amorevolezza verso qualsiasi persona e creatura.

L’effetto di questo “irraggiamento” di buone intenzioni e auspici amorevoli verso me stesso e gli altri mi fu chiaro fin dai primissimi minuti di pratica. Complice anche l’atmosfera e l’influsso della pratica collettiva di più meditatori anche molto “forti” presenti nella stessa stanza, i pensieri di Metta erano in grado di stabilizzare la mente, favorire la concentrazione e dissolvere sentimenti negativi di rabbia, astio e insofferenza, che diventavano quasi impossibile da provare in quelle circostanze.

Oltre al beneficio su me stesso, la pratica di Metta aveva un impatto sottile e oserei dire “magico” anche sul mondo esterno. E’ qualcosa che ho avuto modo di sperimentare in diverse occasioni, sia durante il ritiro che poi nei giorni immediatemente successivi, quando ancora godevo temporaneamente dei super-poteri acquisiti durante la pratica intensiva. Di questi episodi magari tornerò a parlare in un altro post.

Il triste momento del rientro alla vita ordinaria

La parte più triste di quasi tutti i ritiri, quella in cui il cuore diventava pesante come una pietra e l’umore si tingeva di nero pece è sempre stata, per me, quella delle ultimissime ore precedenti la fine del ritiro.

In quei momenti la mente iniziava a prevedere quello che sarebbe accaduto nelle ore e giorni successivi. Il ritorno alla vita ordinaria, e allo stato di consapevolezza ordinaria, frammentata e superficiale, dopo aver sperimentato lo stato di pace, chiarezza e profondità di visione di un ritiro, era per me la maggiore delle sventure possibili per un essere umano.

Sapere che sarei tornato a trascorrere il 90% della mia giornata fuori dal momento presente, e solo un 10% radicato nel qui e ora, anzichè l’esatto opposto, aveva lo stesso sapore di una condanna a morte in miniatura. Certo ero equanime, vedevo il pensiero come un pensiero, e la tristezza come una emozione, passeggera, ma restava il dubbio profond oche stessi sbagliando tutto, e che mi stessi perdendo una grande opportunità.

Se in soli 10 giorni la mia percezione e visione della realtà era cambiata così tanto, cosa sarebbe potuto succedere se fossi rimasto in ritiro ancora 2 giorni? o altri 10? o altri 100 giorni?

La cosa più naturale da fare, in un mondo giusto, un mondo privo di legami e di responsabilità, sarebbe stata senza dubbio di rimanere ad oltranza. Ma non potevo certo mandare al diavolo gli impegni di lavoro presi, la famiglia che avevo creato aveva bisogno di me a casa…insomma, il karma voleva riscuotere la sua parte e non potevo sottrarmi al destino.

Mi consolavo in genere con la promessa che avrei praticato ogni giorno, che avrei mantenuto viva la scintilla di consapevolezza con una meditazione quotidiana e tanta buona volontà di prestare attenzione concentrata durante l’intera durata della giornata.

Ma la realtà era, ed è tuttora, ineluttabile: la vita ordinaria e quella di un ritiro non sono assimilabili in alcun modo. Si tratta di ambienti e dimensioni, con spazi e tempi troppo differenti.

Se anche riuscivo a organizzare la giornata tipo per  meditare 2h al giorno, ogni giorno, per settimane di fila (impresa ultra-umana, per chi ha dei figli, una moglie, e un lavoro abbastanza remunerativo da  sostenerli entrambi) , lo stato di consapevolezza, equanimità e gentilezza in cui mi ritrovavo a vivere nel giro di qualche mese era tornato ad essere quello di sempre.

Ero tornato scortese, impulsivo e compulsivo come prima. Non era rimasto quasi nulla di quanto raggiunto in pochi giorni di un ritiro intensivo.

L’unico modo per sperimentare stati di consapevolezza e di “essere” più profondi era quello di tornare nuovamente in un ritiro, e poi in un altro, e così via. Tra il 2006 e il 2008 partecipai a ben 6 ritiri di meditazione vipassana diversi, senza mai riuscire a raggiungere in modo stabile quel livello di apertura del cuore e della mente che ho cercato di descrivere nei paragrafi precedenti.

Un pò come un tossicodipendente, o un alcolista che va in clinica ogni tot a disintossicarsi, per poi tornare alle sue malsane abitudini, io andavo periodicamente in ritiro a “ripulirmi la mente e il cuore”, per poi tornare a intasarli e ottunderli con la mia vita e le abitudini compulsive di sempre.

Capii così che quella dei ritiri poteva essere una soluzione temporanea, una sorta di “full immersion” ma ben poca della consapevolezza, e della gentilezza generata, sarebbe rimasta con me una volta tornato nel “mondo vero”.

Era necessario cambiare qualcosa nel quotidiano, ogni giorno, non soltanto nei minuti trascorsi sul cuscino di meditazione, ma durante l’intera giornata.

Da allora mi arrovello per cercare di migliorare ogni giorno ed ogni momento anche solo di uno 0,1% , e fare in modo di non perderlo nell’istante immediatamente successivo. Solo in questo modo posso arrivare a fine giornata sperando di registrare un bilancio positivo e sostenibile, nell’evoluzione di questo essere umano che mi porto appresso.

 

 

5 commenti su “Ritiro di meditazione vipassana di 10 giorni: la mia esperienza”

  1. Carissimo,
    ho letto con interesse questo articolo, argomento che seguo da tempo, e in qualche modo mi rispecchio in queste esperienze, benché non abbia mai partecipato a ritiri così intensivi…
    quando scrivi: “Era necessario cambiare qualcosa nel quotidiano, ogni giorno, non soltanto nei minuti trascorsi sul cuscino di meditazione, ma durante l’intera giornata.” mi vengono in mente “i principi della pratica della consapevolezza”, di cui, con piacere, ti riporto un breve estratto da “trasformarsi e guarire” di Thich nhat hanh (ubaldini editore)
    cap. sesto – punto 3. mente reale e mente illusoria sono uno
    “… per questo la pratica consiste nel trasformare la mente illusa, e non nel cercare altrove una mente reale. come il mare tempestoso e quello calmo sono entrambi manifestazioni dello stesso mare, così l a mente reale non potrebbe esistere senza quella illusa…”
    anchi’io sono alla continua ricerca. e ben lungi da avere raggiunto il “nirvana”, ma gli esercizi riportati in questo libretto li trovo estremamente utili…magari li conosci già, in questo caso non dimenticarli!
    buona vita!

  2. Grazie Maurizio del tuo commento e della citazione di Thich nhat hanh. Mi hai fatto venire voglia di andarmi a rileggere quel libro, che non apro da parecchi anni. Buona vita anche a te!

  3. Grazie per il tuo articolo. Per me che mi sto avvicinando alla meditazione e sono reduce da un primo breve ritiro (non cosi strong come quelli che hai descritto) mi È stato di aiuto a capire meglio il suo percorso e i suoi effetti.

  4. Ciao Roberto,
    bel racconto, mi ha fatto rivivere le mie esperienze ai corsi Vipassana di Goenka! Ricordo ancora la tristezza di quando lessi che il corso sarebbe finito da li´ a qualche giorno…
    Sono curioso: come si sta evolvendo la tua pratica?
    Mi ha colpito la tua descrizione del rientro nella vita lavorativa ed al tempo stesso il fatto che menzioni 6 corsi nel giro di qualche anno!

    Alessandro

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